Una nuova sentenza del Tribunale civile di Monza riaccende i riflettori sul controverso caso dei diamanti da investimento venduti tramite le banche, una vicenda che ha coinvolto migliaia di risparmiatori e numerosi istituti di credito italiani.
Il caso Banco BPM: una condanna esemplare
Il Tribunale ha condannato Banco BPM a risarcire oltre 439.000 euro a un gruppo di clienti che, tra il 2012 e il 2014, avevano acquistato diamanti da investimento attraverso la filiale di Monza dell’allora Credito Bergamasco, poi confluito nella banca attuale. I funzionari bancari avevano presentato l’operazione come sicura e redditizia, rassicurando i clienti e spingendoli all’acquisto.
Tuttavia, i diamanti non furono consegnati, ma depositati presso Intermarket Diamond Business (IDB), società poi fallita nel 2019. Solo tre anni dopo, nel 2022, i clienti entrarono in possesso fisico delle pietre, scoprendo con amarezza che il valore di mercato era notevolmente inferiore a quanto pagato.
La responsabilità delle banche
La banca ha cercato di difendersi affermando di avere avuto un ruolo meramente segnalatore, scaricando ogni responsabilità su IDB. Ha inoltre sollevato eccezioni di prescrizione e imprudenza degli investitori. Il giudice ha però rigettato ogni argomentazione, ritenendo la banca responsabile contrattualmente, perché aveva agito come vero e proprio intermediario.
Il Tribunale ha sottolineato che la banca ha partecipato attivamente alla promozione dell’acquisto e ha tratto vantaggi economici dalla vendita. I diamanti furono offerti come strumenti finanziari, soggetti quindi alla disciplina del Testo Unico della Finanza (TUF). In questo contesto, la banca era obbligata a fornire informazioni chiare e trasparenti su rischio, rendimento e liquidabilità del prodotto, obblighi che non sono stati rispettati.
Un contesto di asimmetria informativa
Uno degli aspetti centrali della vicenda riguarda la forte asimmetria informativa tra banca e cliente. L’istituto, in quanto operatore professionale, avrebbe dovuto proteggere gli investitori retail, ma ha taciuto aspetti fondamentali: la reale quotazione dei diamanti, la difficoltà nel disinvestire e la scarsa trasparenza del mercato. Di conseguenza, i clienti furono indotti a credere di effettuare un investimento sicuro, quando in realtà si trattava di un'operazione altamente rischiosa e inadatta al loro profilo.
Il giudice ha riconosciuto che questi elementi hanno viziato la formazione del consenso, rendendo nullo l'accordo dal punto di vista contrattuale.
Il risarcimento e le spese aggiuntive
Il risarcimento di 439.030,21 euro corrisponde alla differenza tra il prezzo pagato e il valore reale dei diamanti secondo il listino Rapaport, punto di riferimento internazionale per la quotazione delle gemme. A questa somma si aggiungono:
- Interessi legali dal luglio 2024 fino al saldo;
- Spese legali per 30.000 euro;
- Costi del procedimento di mediazione (2.559,79 euro);
- Spese per la consulenza tecnica d’ufficio (4.642,95 euro) e del consulente di parte (3.000 euro).
Un precedente importante
Questa sentenza rappresenta un precedente giurisprudenziale significativo per centinaia di altri casi analoghi ancora pendenti in Italia. Diverse banche sono state coinvolte nello scandalo dei diamanti da investimento, tra cui UniCredit, MPS e Banca Intesa, e molte altre cause civili sono in corso.
Il caso
dimostra come, nel mondo bancario, la trasparenza e la protezione del
risparmiatore siano obblighi inderogabili, soprattutto quando vengono
proposti prodotti ad alto rischio camuffati da investimenti sicuri. Ne avevo già parlato con Mirko Quaranta, autore di Investire in Diamanti (lettura che consiglio) quando ancora questo business delle banche era attivo.
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